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Lo stato dell’arte di Fabrizio Bosso: l’intervista al Bravo Caffè

Energico, carismatico, coinvolgente, Fabrizio Bosso è un musicista di grande talento e sensibilità, senza dubbio una delle realtà più interessanti del jazz italiano. Accompagnato da Julian Oliver Mazzariello al piano, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria, il trombettista torinese sta presentando in tour il suo ultimo lavoro “State of the Art”, uscito lo scorso aprile per la Warner.

L’album, registrato dal vivo durante i concerti del Quartetto a Roma, Verona e Tokyo, riesce a catturare come un’istantanea una delle fasi più felici della carriera del musicista, attraverso l’atmosfera unica del live. Dieci tracce in cui si alternano interpretazioni di standard e composizioni originali, in una performance emozionante e fantasiosa, che viaggia tra melodie intimiste e riflessive e soli briosi e innovativi. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Fabrizio in occasione del suo ultimo live al Bravo Caffè di Bologna.

Ti sei diplomato al Conservatorio da giovanissimo, ad appena 15 anni. Com’è nata la tua passione per la tromba?

Tanti musicisti in famiglia! Un papà trombettista, un nonno e uno zio batterista. Loro erano musicisti professionisti, mio padre invece era medico, lo faceva solo a livello hobbistico. In ogni caso sono cresciuto immerso nella musica.

La tua discografia è quanto mai prolifica, conta oltre 20 album. Come sei arrivato a “State of the Art”? Ci vuoi parlare di questo disco?

Ho voluto fermare un po’ gli ultimi due anni di musica insieme a questi musicisti, perché mi sento molto appagato quando suono con loro. Sento che c’è una grande complicità e riesco a tirare fuori il meglio di me. Quando suono con loro mi sento veramente molto bene, c’è un’empatia pazzesca, perché riusciamo a capire cosa serve in quel momento. Nel jazz c’è molta improvvisazione, perciò, se non avviene questa cosa, si rischia che suoni un po’ come un esercizio: il musicista va e mette in mostra quello che ha studiato a casa. Non è così, invece. I grandi jazzisti americani dicevano: “Studiate gli accordi, le scale, tutto quello che volete, ma quando andate a suonare dimenticate quello che avete studiato”.

È una cosa che ho notato nei concerti jazz: a volte si ha la sensazione di ascoltare mere scale.

Esatto. Magari i musicisti sono molto bravi, hanno studiato in corsi prestigiosi come Berkeley, sono preparatissimi… Peccato che poi non arrivi niente a chi ascolta! Io penso che la forza di questo Quartetto, il fatto che funzioni, sia proprio la nostra grande complicità.

Ne fai quindi un discorso di sintonia tra di voi…

Sì. Questo e il fatto che io non sia un leader che vuole primeggiare a tutti costi, che vuole prendere più applausi, fare soli più lunghi degli altri. Ho capito maturando che è più divertente, e anche più vincente, arrivare insieme. Se hai dei musicisti straordinari e sfrutti tutto il loro potenziale, avrai un concerto con una tensione sempre più alta. Per me è una gioia vedere la gente che va a fare i complimenti ai miei musicisti. Quello che fa la differenza è la condivisione che c’è tra di noi sul palco.

Come è nata l’idea di fare un album live?

L’idea dell’album è partita da Patrizio Romano, il produttore della Warner, che è venuto a sentirci a Milano, circa un anno e mezzo fa. Ha detto: “Voglio tenere questa cosa su un disco, mi piacerebbe sentire questa carnalità. Potete tirarla fuori solo suonando dal vivo”.

È quindi questo il vantaggio di registrare un live, piuttosto che un disco in studio, secondo te?

Il vantaggio è quello di avere la spontaneità del live, lo svantaggio però è di avere take magari imprecise. È ovvio, quando suoni live è tutto un po’ più “grezzo”. Ci dai dentro, sei meno attento rispetto a quando sei in studio, dove puoi anche andare a sistemare se viene male una cosa. Con la tecnologia ormai puoi fare di tutto…

È vero. Secondo te quanto è importante la precisione per un musicista?

Beh, sul mio strumento è importante. Poi quando suono scendo a compromessi, perché a volte per ottenere una frase veramente “figa” hai bisogno di prenderti dei grossi rischi. A volte ti va bene, dipende anche da quanto sei in forma. Con il Quartetto la cosa che mi diverte e che mi appaga molto è che posso prendermi dei grossi rischi, perché ho questa solidità sotto, di base sento che è tutto pronto a sorreggere anche una mia mancanza.

Avete registrato l’album in tre momenti, in tre città diverse, a Verona, Roma e Tokyo…

Sì. Ho detto ai ragazzi che avremmo registrato alcuni concerti, ma non li ho sempre avvisati quando registravamo. Era importante che suonassero come avevano sempre suonato, senza pensare al discorso del disco. Se no si va in paranoia. Per questo gli dissi: “Può darsi anche che butterò via tutto quello che abbiamo registrato!”. Poi, alla fine, abbiamo raccolto il materiale da questi concerti.

Hai sempre suonato con giovani musicisti, come il tuo attuale contrabbassista, Jacopo Ferrazza. Come ti poni rispetto ai musicisti emergenti?

Come mi pongo? Penso in maniera molto semplice. Non mi faccio problemi, non sento questo gap tra me e loro. La musica, come tutte le forme d’arte, avvicina. Bene o male sono quelle le cose che continui a fare quando sei in tour, a 20 come a 40 anni: “cazzeggi”, discuti di cose importanti, parli di musica o di altro. La differenza è che io adesso ho un figlio, ho una famiglia, però non faccio fatica a relazionarmi con musicisti più giovani. E loro a relazionarsi con me.

Come ti sembra in questo momento la scena musicale italiana?

Sicuramente piena di talenti, ma con poche possibilità di farsi sentire e pochi spazi ancora. Anche se poi le cose accadono.

Infatti tu ci sei riuscito, hai fatto tanti dischi, tanti tour. Sei una storia di successo.

Sì. Però parliamo di qualche anno fa. Adesso sembra tutto più facile, è tutto più vicino, c’è Internet, si impara più velocemente, ci sono un sacco di scuole, ma da qui a far la professione… Io penso che una volta si facesse un po’ più di gavetta, anche facendo tante porcherie, che però ti fanno crescere. Ti fanno capire il valore di quello che stai facendo. Se sei arrivato a un punto è perché comunque hai fatto un percorso. Ora si impara a suonare uno strumento più facilmente, quindi si hanno da subito certe pretese. Sicuramente studiare va benissimo, ma poi è fare il mestiere quello che conta.

A proposito di questo, la tua carriera è ricca di collaborazioni con musicisti di altissimo livello, non solo nel jazz, ma anche in altri generi, come il pop. Cosa ti hanno lasciato queste esperienze?

Mi sono divertito. Io comunque sono cresciuto ascoltando musica cantautorale, ho imparato a improvvisare proprio sui dischi di Paoli, della Vannoni, di Fabio Concato, con cui poi mi sono ritrovato a suonare insieme. Forse dirò una banalità, ma io penso che ci siano solo due tipi di musica: quella bella e quella brutta. Io amo la musica a 360 gradi, ascolto la musica brasiliana, il pop. Forse, ecco, il rock è una musica che non mi ha mai veramente preso, anche se ci sono delle cose belle. Non ho vissuto quegli anni d’oro. E quindi sì, le collaborazioni pop mi hanno sempre divertito. Partecipare a Sanremo è stata una sorta di vacanza. Abituato a saltare da una parte all’altra, sono stato una settimana senza prendere la macchina, fermo nello stesso posto!

Se ti chiedessi per te che cos’è il jazz, che cosa mi risponderesti?

Beh, è una forma di musica in cui c’è una grande libertà, ma ci sono anche delle regole da rispettare. Altrimenti si rischia di fare della gran caciara. C’è qualcuno che in un certo periodo ha frainteso questa libertà, in particolare nel free jazz. Un conto è suonarlo con consapevolezza, come i grandi che l’hanno inventato, ma ci sono stati alcuni musicisti che se ne sono approfittati. Totale libertà non vuol dire che uno può fare quello che vuole.

È un po’ la differenza tra la libertà e l’anarchia, insomma.

Esatto.

E nel tuo futuro a breve termine che cosa c’è?

C’è sicuramente il tour, abbiamo anche tanti concerti in Asia. Lì impazziscono per il jazz americano e italiano… Tra gli Europei hanno scelto noi! Poi sono carini ai concerti, sono affettuosi, a modo loro ovviamente. Hanno questo debole, quindi si vendono bene i dischi, se riesci a farti un nome. Io negli anni ci sono andato a suonare con altre situazioni, finché sono diventato più conosciuto.

Abbiamo parlato del tour, ma so che avete in cantiere anche un altro progetto…

Sì, il tributo a Dizzy Gillespie per il centenario della nascita, che presenteremo quest’anno a Umbria Jazz insieme a Paolo Silvestri, che ha scritto anche “Duke“, l’altro mio disco – tributo a Duke Ellington. Con questa formazione andremo in Cina a ottobre. Sarà una band ancora più allargata, con il Quartetto più nove fiati… quasi una big band. Ci sarà da divertirsi!

 


FABRIZIO BOSSO QUARTET – “STATE OF THE ART”

Warner – April 2017

CD1

  1. Pure Imagination (Anthony Newley)
  2. Minor Mood (Fabrizio Bosso)
  3. Rumba for Kampei (Fabrizio Bosso)
  4. The Nearness of you (Hoagy Carmichael)
  5. There is no Greater Love (Isham Jones)

CD2

  1. Black Spirit (Fabrizio Bosso)
  2. Goodness Gracious (Julian Oliver Mazzariello)
  3. Mapa (Fabrizio Bosso)
  4. Misty (Errol Garner)
  5. Dizzy’s Blues (Fabrizio Bosso)

 

All Tracks:

Fabrizio Bosso, tromba

Julian Oliver Mazzariello, piano

Jacopo Ferrazza, contrabbasso*

Nicola Angelucci, batteria

*Eccetto nelle tracce 3 e 5 sul CD2 (Luca Alemanno, contrabbasso)