Le luci della centrale elettrica – Canzoni da spiaggia deturpata

La musica è infinita, come infinite sono le determinate angolazione da cui si può vedere una medesima situazione. Sono “infiniti” gli eletti musicisti atti a raccontare noi stessi, la nostra vita, il nostro mondo con le giuste parole. Signori, con in mano le chiavi di scrigni segreti, capaci, grazie ad una inusuale sensibilità, di farci caratterizzare gli universi che si muovono dentro di noi, quelli che non hanno ancora trovato la loro inimitabile via di uscita. Il resto è contorno musicale, si può comprare analogamente un chilo di pesche succose ed invitanti o un chilo di cd di Jesse McCartney. Si usufruisce delle stesse leggi di mercato, con la sostanziale differenza che con il primo avrai lo stomaco pieno, mentre certi supporti in jewel case non li puoi neanche usare come tacche per un tavolo zoppicante. Si rompono.
Ci sono dischi, poi, che superano il personale concetto di “valido ed interessante”, sono quelli che ci onorano delle loro visite rarissime volte, facendosi bramare come la più amata delle dive, lasciandoci adagiare l’orecchio su un certo livello e sconvolgendo successivamente i nostri equilibri con il suo arrivo.

Quante volte capita di innamorarsi seriamente di un demo autoprodotto? Quante di pensare che lo stesso demo sia uno dei più bei lavori di questi ultimi anni? Quanti possono considerarsi preziosi oggetti animati da custodire e tramandare ai posteri? veramente pochi, ma Le luci della centrale elettrica, nome in arte che racchiude un immaginario collettivo ed alle cui redini vi è Vasco Brondi, sta dando risposta a queste domande dai primissimi passi rigorosamente made in d.i.y. fino l’esordio ufficiale “Canzoni da spiaggia deturpata”.

Il disco che stavamo inconsciamente aspettando, i lemmi che stavamo cercando per capire noi e ciò che abbiamo intorno, la rabbia e la dolcezza che diventano sfogo, l’istintività capace di essere, allo stesso modo, immediata e rifinitissima senza sfiorare mai espressioni ridondanti.
Una produzione che arriva sfatando quel pizzico di paura serena che si prova quando le aspettative sono così alte e ti affezioni realmente ai primi vagiti ibridi di un’idea, ma infondo sai già che puoi fidarti ed inevitabilmente avverti la voglia di spendere qualche sentita e vera parola di complimento e benvenuto. Un bisogno che non si provava da un po’, quasi un ringraziamento, più che ovviare indubbie doti.

Dieci tracce in cui vengono cristallizzati gli aspetti più intimi di un’epoca e dei suoi (non) agitatori, sviluppate senza orpelli o il bisogno di condire il suo pensiero, tutto prende vita solo mediante lui, i suoi pensieri, le chitarre e la forma canzone che si plasma a seconda dei moti dell’animo che la volgono. Lascia alla sua interiorità il compito di sancire le sorti, poco importa, poi, se accostabile a “stili” e sfumature di varie entità. Il background di questo cantautore ferrarese, infatti, non è solo il risultato di ascolti, ma di tutto un mondo filtrato e codificato dai suoi occhi.
Rispetto al demo, il disco ha un suono meno “casalingo”, viene evidenziata maggiormente la parte strumentale, lasciando invariato quel senso grezzo e spontaneo che distingue le liriche di Brondi e quasi ci dispiace che le piccole imperfezione abbiano trovato una via più collimata.
Un lavoro delicato, quello che vede Giorgio Canali in veste di produttore, che sottolinea il suo amore per il progetto, contribuendo a far identificare il sapore di ciò che nasce da tale sentimento.

E’ proprio il caso ammetterlo, la “diva” che stavamo aspettando ha varcato la soglia, impossibile non girarsi a guardarla e se la domanda costante è “Cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?”, forse una risposta è arrivata.