Nafta: recensione e intervista a Giacomo Toni

Nafta” – quarto album per Giacomo Toni e la sua Novecento Band – non ha niente a che vedere con la musica patinata a cui siamo da troppo tempo abituati. Non ha niente a che vedere nemmeno con buona parte della cosiddetta “musica indie”. Nell’epoca dei talent show e delle playlist su Spotify, mancava un disco come questo, così graffiante, verace.

In “Nafta” Giacomo racconta la vita senza fronzoli, toccando temi attuali, pure scomodi, con grande intelligenza e feroce ironia. Il riflettore è puntato su personaggi di cui di solito non si canta, ritratti con tutte le loro ombre. I nove brani sono nove storie di malessere e di emarginazione (ne “Il diavolo marrone”, ad esempio, si racconta la dipendenza dall’eroina), storie di bar di provincia e di motori. L’odore del combustibile, se ascoltate attentamente, sembra quasi di sentirlo davvero.

Insieme alla bellezza dei testi, altri punti di forza dell’album sono gli arrangiamenti, per nulla scontati, e la scelta dei suoni. Non quelli ripuliti in postproduzione, che rendono un disco uguale all’altro, ma sonorità registrate dal vivo, sporche, che includono anche rumori ambientali. Sonorità che sono a volte imperfette, il che, in questo caso, è un valore aggiunto.

Nafta” è un disco grintoso, potente, che mescola al cantautorato un rock energico. O un “piano-punk”, com’è stato battezzato lo stile peculiare di Toni. Al di là delle etichette, comunque, quest’album è realmente un’alternativa, una boccata d’aria fresca che vi consigliamo di non perdere.

 

Ciao Giacomo, benvenuto su SulPalco.com. Innanzitutto grazie per aver accettato il nostro invito, è un grande piacere poterci confrontare con te. Cominciamo l’intervista con una domanda classica: “Nafta” è il tuo quarto album. Come sei arrivato a questo disco? Che direzione pensi stia prendendo la tua musica?

È stato un percorso di estremizzazione del linguaggio musicale che è andato di pari passo con i contenuti testuali. Probabilmente deve aver influito qualche fattore esterno, soprattutto la necessità di essere in controtendenza rispetto alla musica italiana indipendente degli ultimi anni. Avevamo la volontà di rappresentare un’alternativa chiara all’estetica generazionale, sfacciatamente arrivista, che ha invaso la nostra disciplina. La mia musica deve intrattenere prima di tutto le mie orecchie e quelle dei musicisti che mi affiancano, è quella la sua direzione.

“Nafta” è uno degli album più interessanti, più emozionanti, che mi sia capitato di ascoltare ultimamente. Complimenti! Ti va di presentarlo ai nostri lettori? Si parla di tante cose, di droga, di motori, di bar di provincia. C’è un filo conduttore in questo girotondo di storie (a volte surreali) e personaggi?

Abbiamo inteso questo album come se fosse inserito in un paesaggio ben preciso, l’entroterra agricolo. Gli argomenti principali sono sesso, droga e motori, una specie di rappresentazione della provincia contemporanea per nulla bucolica. Ovviamente la Romagna e le storie che ho vissuto hanno condizionato il racconto. Ogni canzone ha un soggetto che tende a decifrare questa realtà.

C’è una canzone del disco a cui sei affezionato più delle altre? Perché?

Mah, dipende dai giorni. Non tutte toccano le stesse corde emotive.

In “Nafta” c’è parecchia ironia, ma anche rabbia, solitudine, cinismo. Non sembra sia rimasto tanto spazio per l’amore. Come mai?

Direi che è pieno di cantanti che scrivono male d’amore, non volevo aggiungermi alla lista. L’assenza di sentimentalismo è un filo conduttore che unisce questi personaggi, che a farci caso hanno tutti un rapporto conflittuale con l’universo femminile. Nella canzone che chiude il disco [“Inchiodato a un bar”, n.d.r.] affronto di petto l’argomento.

Parliamo del suono. Oltre ai testi delle canzoni, questo è l’altro aspetto che ho apprezzato del disco, perché è sporco, grezzo. Non è il suono patinato, senza imperfezioni a cui siamo stati abituati. Perché questa scelta?

La scelta del suono è la rappresentazione del paesaggio che stavamo cercando. La provincia nebbiosa, anarcoide, tossica. La produzione artistica di Franco Beat Naddei è stata la chiave di svolta. Abbiamo inciso dal vivo, nella stessa stanza, che per una band di sei elementi è un’alternativa rischiosa perché espone a qualche imprecisione, qualche sbrago di pathos, e a una buona dose di sporcizia sonora d’ambiente. Abbiamo cercato di farne un punto di forza, una distinzione.

Nella tua musica si sente lo swing, si sente il rock, il punk. Molti hanno definito questa sintesi “PianoPunk”. Come ci sei arrivato?

Quando ero più giovane credevo che ci fosse una scala di “nobiltà” nella musica che ho amato. In cima c’era il jazz. Credevo che riferirmi allo swing avrebbe nobilitato il mio modo di fare canzone e mi avrebbe posto in un gradino più alto rispetto a musicisti che avevano studiato meno, così come io stesso mi sentivo al di sotto di musicisti che avevano studiato di più. Col tempo ho capito che erano sciocchezze e ho fatto emergere i vecchi amori: il punk rock e le ballad al pianoforte.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali? Quali musicisti ti hanno ispirato?

Mi limito a qualche pianista: Jelly Roll Morton, Fats Waller, Monk, Jerry Lee Lewis…

Se potessi collaborare, suonare con un musicista (anche uno che non è più tra noi), chi sceglieresti?

Enzo Jannacci.

Che ne pensi del panorama musicale italiano di oggi? Quanto è difficile essere un cantautore?

Il panorama musicale italiano di oggi conferma la sfiducia che ho verso la mia specie. Essere un cantautore invece non è difficile, bisogna studiare uno strumento musicale e leggere qualche buon libro.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Ci dai qualche anticipazione?

A breve, per il 25 Aprile, uscirà uno studio sulla Resistenza, in collaborazione con Primula. Non sono mai stato particolarmente interessato alla canzone politica, penso che ormai sia antistorica. Tuttavia mi sono appassionato ai caduti di una battaglia sull’Appennino romagnolo. Tredici ragazzi pressoché dimenticati. È venuta fuori una canzone, forse un esercizio di stile, che vuole soltanto dare una memoria a quel sacrificio.

 

INFORMAZIONI:

Autore: Giacomo Toni

Album: Nafta

Anno: 2017

Label: Brutture Moderne

 

La Novecento Band è composta da:

Giacomo Toni: voce/piano

Marcello Jandù Detti: trombone e oggetti rumorosi

Roberto Villa: contrabbasso

Marco Frattini: batteria

Gianni Perinelli: sax

Daniele Marzi: batteria

Franco Beat: manipolazioni sonore

 

TRACKLIST:

1. Lo strano

2. A nessuno

3. Cugino Motorio Pasticca

4. Chinatown

5. Il porco venduto che sono

6. Ho perso la testa

7. Il diavolo marrone

8. Codone lo sbirro

9. Inchiodato a un bar

 

CONTATTI:

Web: http://www.giacomotoni.it/

Facebook: https://www.facebook.com/giacomotoni900band/