La Terza Via di Cecilia Sanchietti: l’album e l’intervista

S’intitola “La Terza Via (The Third Side of the Coin)” il secondo album della batterista e compositrice jazz Cecilia Sanchietti, uscito all’inizio dell’anno per l’etichetta BluJazz di Chicago. Dieci brani eleganti, coinvolgenti, in cui il gusto raffinato della musicista romana si esprime attraverso melodie delicate, sì, ma sempre intense ed emotivamente toccanti.

Dei pezzi che compongono il disco la maggior parte sono frutto del talento compositivo di Cecilia (fanno eccezione solo “Emerging Lands” di Pierpaolo Principato, “Hang Gliding” di Maria Schneider e “Innocence” di Keith Jarrett) e della sua dirompente necessità di esprimersi, di raccontare le proprie esperienze. Un esempio tra tutti? Il pezzo contro la guerra “Not (in) my name”, in cui i colpi di rullante conferiscono drammaticità al brano, richiamando il tamburo marziale.

Lo stile di Cecilia è fresco, libero, aperto alle contaminazioni tra generi, la sua musica è affascinante e suggestiva. Struggente a tratti, ariosa, grazie all’utilizzo sapiente delle pause e delle dinamiche. Al di là della bellezza dei temi, la struttura dei brani è pensata per lasciare spazio all’interplay e per valorizzare l’improvvisazione dei talentuosi musicisti con cui la Sanchietti si accompagna (Pierpaolo Principato al pianoforte, Marco Siniscalco al basso e contrabbasso e Nicolas Kummert, come guest, al sax tenore).

È un jazz garbato, quello di Cecilia, contemporaneo e per nulla elitario. Un jazz comprensibile, che vuole dire e farsi capire (cosa che oggi, purtroppo, non sempre accade). Per questo “La Terza Via” è davvero un bel disco, un album che riesce a toccare chi ascolta e che viene voglia di riascoltare. Recentemente abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Cecilia: ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao Cecilia, innanzitutto grazie per averci dato la possibilità di intervistarti. Sappiamo che sei nel bel mezzo del tour per presentare il tuo nuovo album, “La Terza Via”. Come sta andando?

Grazie a voi per questa opportunità. Il tour è iniziato a marzo con tappe sia in Italia che all’estero, in Germania e in Belgio. Quando suono all’estero mi colpisce sempre la propensione all’ascolto, la partecipazione di persone di tutte le età, la vicinanza e l’affetto che la gente ti riserva. A Berlino non ci lasciavano andare via, a Leuven in Belgio il pubblico era formato da esperti e musicisti, in quanto si trattava di una rassegna dedicata a soli batteristi, tutti molto attenti e aperti all’ascolto. La tappa di Napoli è stata fantastica con la sala piena e la gente calorosa. Perugia anche ci ha regalato un bellissimo pubblico.

 Cosa significa “La Terza Via” per Cecilia Sanchietti? Qual è la storia che vuoi raccontare nel tuo ultimo lavoro?

La “terza via” è una via tortuosa, un percorso di coraggio. Un tema a cui tengo in modo particolare perché rispecchia la mia strada, fatta di scelte difficili, voglia di rischiare, desiderio di costruirsi, come può essere quella di molte persone. È il coraggio di rifiutare delle scelte superficiali e comode, modaiole, di essere una donna, musicista, batterista, jazzista, in Italia, in un contesto per nulla paritario e benevolo verso le donne. Il lavoro è nato da un forte desiderio interiore di rappresentare un momento cruciale di vita e ciò che ritengo veramente importante, andare a scoprire la “verità” e costruire la propria strada. Il titolo viene da una poesia di Enzo Samaritani, “La terza via” appunto. Lui la descrive come una strada molto scomoda, ma anche ricca di qualità, e per questo rara. Era da tempo che ragionavo su questo aspetto, i suoi versi sono stati illuminanti.

Anche se le tue collaborazioni non si sono limitate all’ambito jazzistico (ho letto che hai lavorato, ad esempio, con Carmen Consoli e con Nada), è nel jazz che hai trovato modo di esprimerti al meglio. Com’è nato il tuo amore questo genere? Che cos’è il jazz per te?

Collaboro con tanti artisti anche lontani dal jazz perché credo nell’importanza della contaminazione tra stili e del sapersi esprimere in molte direzioni. Tuttavia, il jazz per me ha rappresentato un vero momento di svolta, il passaggio alla vera professione, in età abbastanza adulta, circa 30 anni. Ho iniziato a suonare jazz in età adolescenziale, nei primi laboratori, mi chiamavano per accompagnare standard, perché gli altri batteristi non erano interessati o non erano pronti. Non lo avevo studiato molto, a volte mi sentivo parecchio in imbarazzo, ma poi riuscivo a interpretare i brani come se già ne fossi padrona. Poi per parecchi anni mi sono dedicata ad altri generi, ho ritrovato il jazz da “grande” collaborando in Orchestra con Stefano Scatozza. Con il jazz ho tirato fuori il mio vero stile e la mia personalità, paradossalmente anche la mia femminilità. Mi ha aiutato a conoscere me stessa. Il jazz è uno stile di vita, è fatto di interplay, contaminazione, improvvisazione, della capacità e disponibilità a reinventarsi continuamente, è un modo di stare con gli altri, per rinascere nuovamente a ogni concerto.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali? C’è qualche musicista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?

Io mi ritengo molto versatile, anche negli ascolti, non sono una “purista” del jazz. Ascolto molti generi, dal cantautorato al rock melodico. Adoro Sting e i cantautori italiani come Battiato e De Gregori. Ho ascoltato molto Petrucciani, Brad Mehldau, Jarrett e i suoi album con Garbarek, Maria Schneider, a cui ho dedicato un omaggio nel disco, Carla Bley, Pat Metheny e Steve Khan. Come batterista mi sento molto vicina a Jon Christensen, Ballard, S. Copeland, Steve Gadd, JoJo Majer, che hanno un’idea melodica del drumming, non solo ritmica.

Non ho artisti specifici con cui vorrei collaborare, ma mi piacerebbe molto continuare a lavorare con artisti esteri. Un piccolo sogno? Gli Snarky Pappy che adoro!

Dal tuo primo disco, “Circle Time” a “La Terza Via”, come pensi si stia evolvendo la tua carriera?

È molto difficile, per me, capire dove voglio andare, questo perché esprimo molto quello che sento in un preciso momento. Sicuramente, rispetto al primo disco, si sono rafforzate la dimensione internazionale e la parte compositiva, e in futuro vorrei realizzare progetti che leghino ancora di più questi due aspetti di me, batterista e compositrice. Mi sento sempre più vicina a una dimensione moderna del jazz, probabilmente nei prossimi lavori inserirò anche delle “incursioni” elettroniche ma preferisco non darmi una direzione per ora.

Al di là della cura e dell’eleganza del suono, quello che mi ha colpito delle tue composizioni è la loro capacità di emozionare (cosa non affatto scontata). In che misura influiscono sulle canzoni che scrivi le esperienze di cooperazione internazionale che hai vissuto in Africa, in Kossovo o in Chiapas?

Mi fa molto piacere questo commento, emozionare ed entrare in empatia con il pubblico è fondamentale per me, elementi purtroppo spesso sottovalutati nel jazz. Le mie esperienze passate in contesti di cooperazione internazionale hanno costruito la mia parte umana più profonda e probabilmente la capacità di entrare in relazione con “l’altro” in modo particolare. Mi hanno dato “cose” da raccontare: le storie ascoltate, i contesti, la gravità di certe situazioni, la necessità di esserne parte e poter fare qualcosa, mi hanno dato “cose” da raccontare e mi aiutano sempre a ridimensionare, a riorientare, e questo influenza anche la mia musica. Noi suoniamo quello che siamo in fondo… Il primo disco era dedicato soprattutto a questo, ai miei ricordi, alle persone incontrate in contesti difficili, da qui nasceva il suono molto etnico. Ne “La Terza Via” c’è un brano “Not (in) my name” dedicato alla storia di Asia, una combattente curda a cui tengo molto. Vorrei un giorno recuperare la mia dimensione da “cooperante” e legarla al mio essere musicista oggi.  Lo farò, ne sono sicura.

Ho letto che fai anche parte della direzione artistica di “Women in Jazz”, il festival internazionale interamente dedicato alle donne e compositrici. Pensi che oggi, nel mondo della musica, ci siano davvero pari opportunità?

Sì, WinJazz è un Festival che dirigo dal 2015 per conto di Mulab, associazione culturale di Roma. È nato proprio con l’obiettivo di dare un contributo per la realizzazione della parità di genere che, assolutamente no, non è per nulla raggiunto. In modo particolare nel jazz. Basta pensare che i Festival dove ho maggiore facilità di accesso sono quelli dedicati a sole donne. C’è un grosso problema di pregiudizio, diffidenza e discriminazione. La donna, se non è cantante, è presente molto poco in rassegne autorevoli e di solito diventa più un modo per fare “vetrina” in quanto eccezione, e per questo attirare pubblico, piuttosto che per i suoi meriti.

E come giudichi la scena musicale attuale per i musicisti emergenti? Hai qualche consiglio da dare (sicuramente gradito)?

Il mercato in Italia è chiuso, gestito da pochi attori e agenzie che si dividono grandi nomi. Le difficoltà più grandi sono per quelli che io definisco “gli artisti della via di mezzo”, musicisti non più emergenti, con già importanti collaborazioni alle spalle, ma a cui ancora non è permesso “entrare nella sfera degli affermati”. Tantissimi musicisti si perdono, si crea un grosso ingorgo, una forbice: nomi autorevoli da una parte ed emergenti alle prime uscite dall’altra, le due categorie in realtà più favorite perché rispondono a meccanismi di mercato e non meritocratici. Credo sia importante lavorare su questa fascia di mezzo per non perdere bellissime proposte. I consigli che, per esperienza diretta, posso dare, è di formarsi non solo da un punto di vista musicale ma anche promozionale. Per promuoversi, oggi, l’artista deve fare da solo, gestire i propri canali, la propria immagine, il booking. Questo non si improvvisa, ci sono delle strategie. All’estero esistono delle imprese culturali che fanno formazione agli artisti sul self empowerment, sulla costruzione di un progetto e sulla strategia per portarlo avanti. Bisogna conoscere gli esperti del settore, gli operatori culturali. Questo soprattutto in Italia dove la relazione conta molto. Poi, consiglierei di cercare nuovi canali e nuove strade, non concentrarsi sui “soliti” luoghi dove si fa jazz, siamo tanti e c’è poca offerta, crearsi un proprio percorso personale.

Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro? Spero che tra questi sia in programma una data a Bologna!

Ora sono molto concentrata sul tour e sulla costruzione delle prossime tappe. Vorrei tornare all’estero, sto lavorando sul Belgio e cominciando a pensare agli USA, dove abbiamo avuto ottimi riscontri. A Bologna, ne sarei felice! Anche lì ho attivato moltissimi contatti tra il Bologna Jazz Festival e il Crossroads, ma ancora niente di definito.

Hai un ultimo messaggio per i nostri lettori?

Innanzitutto vorrei ringraziarli per aver letto sinora quest’intervista! Poi vorrei lanciare due messaggi, il primo ai musicisti-lettori e agli organizzatori di eventi, un invito a far tornare la musica jazz “popolare”, accessibile, una musica fatta anche per un pubblico non esperto. Uno sviluppo dell’audience porterà nuove possibilità di esibizione per tutti noi. Il secondo a chi vuole iniziare un percorso, un grosso in bocca al lupo e un invito a non provare mai ad essere quello che non si è.

Autore: Cecilia Sanchietti | Album: La Terza Via | Anno: 2018 | Etichetta: Blujazz

Track List: Which way – Circus – Not (in) my name – Shouting to a brick wall – Sweet & bitter – Run baby run – Emerging lands; Hang gliding – La Terza Via – Innocence.

 

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